Quando a Ottobre dell’anno scorso ho terminato il Corso introduttivo alla Speleologia non credevo certo che appena qualche mese più tardi avrei avuto la possibilità di scendere in quello che è attualmente il più grande e famoso complesso carsico d’Italia. In Corchia pensavo che ci sarei andato appena da lì a qualche anno, dopo aver fatto la solita gavetta in grotte del Carso e Friuli. Invece a Marzo mi trovo a Levigliani, la Courmayeur della Speleologia, a fare colazione guardando foto e rilievi di gallerie e abissi che hanno fatto la storia di questa attività. Ho una certa apprensione a pensarmi lì dentro. Finora non ho mai fatto permanenze in grotta più lunghe di 5 ore. Due settimane prima più o meno gli stessi che siamo qui in Toscana eravamo in Bus de La Genziana, abisso sull’altipiano del Cansiglio. Doveva essere una prova generale per la traversata che avremmo dovuto iniziare tra qualche ora, e l’avevamo superata bene. Avevamo raggiunto il grande salone a -200 e da lì abbiamo ricominciato a risalire con calma, fermandoci a degustare deliziose minestrine primavera preparate da Linus e Fabri. Totale 5 ore appunto, con il primo assaggio di cosa significhi trascinare un sacco in meandro. Qui però ci aspetta qualcosa di decisamente diverso: la “gita” consiste nell’entrare dall’ingresso dell’abisso Fighierà (il cosidetto ingresso del “Becco”) e dopo una lunga traversata in discesa visitare prima il Ramo dei Maremmani e poi raggiungere la giunzione con l’abisso Farolfi, dal quale poi uscire. Totale stimato: 16 ore. Urca. E pensare che le nostri allegre badanti che a tempo perso sono anche Istruttori Nazionali di Speleologia hanno per un po’ accarezzato l’idea di portarci là dentro già a Novembre, appena terminato il Corso. Fortunatamente si sono accorti che rischiavamo di fare il passo più lungo della gamba, ma ciononostante durante la traversata a cui hanno partecipato (la cosidetta “Traversata integrale del Corchia”) hanno proposto di organizzare questa “Traversata del Becco”. E a Gennaio, in occasione dell’Assemblea annuale del Gruppo Grotte, Fabri mi dice “19-20 Marzo andemo in Toscana per la traversata Fighierà-Farolfi: 400m in discesa, niente risalite. Senti chi voi venir. Ti te vien, no?”. E come si può dire di no? E invece adesso cominciano i dubbi. 15-16 ore? Tanta roba, reggerò? Ma ormai siamo qui, e preparata l’attrezzatura saliamo sui fuoristrada e partiamo. Dopo qualche chilometro su per tornanti raggiungiamo la fine dell’asfalto. Da qui si innestano le ridotte e si va su sterrato. Sterrato vero: buche, neve, un baratro sul lato e Franz alla guida che mi sembrava teso come una corda di violino. Arriviamo salvi (sani non so, perlomeno non i miei nervi) ad uno spiazzo dove lasciamo le macchine. Da qui si prosegue a piedi, lungo la vecchia strada che porta alla cava dove si apre l’ingresso dell’abisso Fighierà. una delle porte ai 60km di pozzi, meandri e gallerie che creano il Complesso del Monte Corchia. “Da qua quanto xe all’ingresso, Fabri?” “Mah, mezzoreta.” Dopo “mezzoreta” stiamo ancora arrancando in mezzo metro di neve marcia, dispersi in una fila lunghissima e abbiamo già la prima defezione: uno dei 15 speleo della compaggine preferisce tornare indietro, sentendo che se è stanco già ora è meglio non rischiare dopo. Saggia decisione, penso. Se più gente avesse il coraggio di saper rinunciare gli incidenti in montagna sarebbero la metà.
Tre “mezzorette” più tardi comunque raggiungiamo la cava e, finalmente, l’ingresso. Un buco in parete a circa 4 metri da noi, che si raggiunge da una china di neve e rocce. Neve, già. Ancora tanta neve penso, l’Appennino è sì basso come altitudine ma sa essere selvaggio come pochi posti nelle Alpi. Aspettando che chi mi precede entri mi guardo un po’ in giro, notando come i monti qui siano davvero come le montagne che disegnano i bambini: dei triangoli ripidi con cime aguzze. Entro quando fuori inizia a nevicare e mi pervade una certa calma, come ogni volta che entro in grotta. Ora sono dentro, l’unica cosa da fare è entrare in sintonia con l’ambiente e goderselo, senza l’ansia di uscire. All’ingresso spira tanta aria, indice del volume di vuoto che c’è dentro la montagna e sopra di me per la prima volta vedo grandi lame di roccia erosa e non stalattiti. E’ la prima volta che mi trovo in una grotta erosiva e senza calcificazione, non essendo ancora stato negli abissi del Canin, ma ciononostante le forme che la roccia assume mi affascinano lo stesso. Talune poi sono pulite dall’argilla, e mostrano la colorazione bianchissima dei marmi in cui si sviluppa per buona parte la cavità. Primo pozzo, primo salone, calata in meandro, salone, galleria. La grotta si sviluppa davanti a noi man mano che procediamo, sempre spoglia, tra enormi blocchi e evorsioni scavate dai torrenti che anticamente hanno scavato queste gallerie. Il tempo passa, non guardo né l’orologio né l’altimetro, piuttosto mi godo la grotta e la compagnia degli speleo del GS Lunense che ci fanno da guida. Arriviamo alla partenza di uno stretto pozzo/laminatoio di 30m circa. In realtà la forra è ben più alta, con la luce alogena riesco a malapena illuminarne la volta. Le dimensioni della grotta mi sbalordiscono. E’ davvero enorme. Come enorme è il masso incastrato giusto sopra la nostra partenza, che Ciano trova giusto segnalare a me e Monica, tanto per rendere la calata più tranquilla.
Alla fine della discesa raggiungiamo il ramo attivo con il torrente, che da adesso in poi scorrerà parallelo al nostro percorso per buona parte della discesa. Una risalita e raggiungiamo la forra successiva. Qui ci fermiamo un attimo. Una frana recente ha modificato la calata, e bisogna superare un saltino di 3 metri circa. Non ci sono armi fissi, e Fabri e Linus si ingegnano una calata sul piantaspit e una lama di roccia dall’aspetto non troppo solido. Ma vabbè, il salto è breve e bisogna soltanto calarsi, le sollecitazioni maggiori sulle protezioni avvengono in risalita. Qui ci fermiamo per mangiare, scarburare e aspettare gli altri perché il gruppo si ricompatti. Mi guardo in giro e tento di nuovo di illuminare la volta della forra in cui siamo. Stimo 40m, un palazzo di 10 piani. Ironia, malgrado le dimensioni della grotta spesso si presentano passaggi piuttosto stretti, come l’inizio del meandro che ci porterà nuovamente sul ramo attivo. O meglio, non so dire se il pozzo che ci apprestiamo a superare è sotto una cascata del torrente o un orribile stillicidio, il risultato è comunque lo stesso: alla fine della calata mi ritrovo fradicio, e resto fradicio sia nello stretto meandro seguente che alla partenza del grande pozzo che ci aspetta. Il Gran Sabba, pozzone da 90 e più metri di cui in realtà facciamo circa 70, partendo da una finestra più in basso. Una poco rassicurante scritta è a memoria della prima esplorazione: “Un bel giorno per morire 15-11-80”.Malgrado tutto. lo scenario che si apre dopo la stretta partenza del pozzo è impressionante: una enorme caverna in cui cade una cascata dipinge uno scenario veramente dantesco. Al frazionamento resto per un po’ appeso per cercare di guardarmi in giro ma non riesco a rischiarare niente. 40 metri più in basso le luci di chi è già sceso danno una vaga idea delle dimensioni dell’ambiente, ma appunto è solo un’idea.A questo punto abbandoniamo i nostri sacchi e ci dirigiamo verso la nostra deviazione, il Ramo dei Maremmani. un complesso di gallerie fluviali ancora parzialmente attive che termina su un sistema enorme di pozzi e camini. Qui le nostre due guide ci raccontano della esplorazione che stanno effettuando, arrampicando lungo un camino stimato sui 100m di altezza verso una probabile uscita. E c’è da crederci che ci sia un’uscita verso l’esterno, vista la quantità di aria che si sente spirare malgrado l’ampiezza della galleria. E’ un vero e proprio vento. Merita di essere menzionato il nome che hanno dato alla loro risalita: “Risalita degli Uomini Rana”, nome che da solo evoca la quantità di acqua che investe gli speleologi durante l’arrampicata. Torniamo indietro lungo le gallerie di nuovo verso il cavernone sotto il Gran Sabba, arrampicando tra lame e spuntoni di roccia che l’acqua ha modellato in forme arrotondate e bizzarre (e taglienti). Riprendo il mio sacco, che un po’ per masochismo e un po’ per necessità di fare pratica mi trascino dietro ostinatamente, anche quando qualcun altro si offre di portarmelo. Monica mi guarda con disapprovazione, e probabilmente ha ragione lei, ma non importa. Una serie di lunghi laminatoi inclinati obbligano a camminare bassi, con somma felicità della schiena, fino a giungere un ultimo pozzo in parte sotto cascata che arriva sulla galleria che porta poi al campo base. Qui abbandoniamo definitivamente il ramo attivo e ci dirigiamo nella tenda allestita per i campi. Sinceramente, è un bel posto. Perlomeno così appare dopo 11 ore di progressione. 11 ore? Sono volate, e mi sembra strano guardare l’orologio e leggere che sono le undici di sera. E ad accorgersi che è tardi è anche il mio metabolismo, dato che dopo aver mangiato la solita minestra di Linus (che meriterebbe da sola un articolo a parte) mi addormento. O meglio, mi addormenterei se non avessi in giro una decina di speleo che continuano a darmi colpi nei fianchi. Del resto lo spazio è poco, per mangiare ci si muove e i grottisti si sa che non sono personaggi tra i più delicati. Sonno o no, la pausa è comunque ristoratrice e si può ripartire. Ancora meandri e brevi calate e arriviamo finalmente alla giunzione. Una strettoia larga meno di un metro collega gli abissi Fighierà e Farolfi, e abbandonato il primo entriamo finalmente nel secondo che con una serie di meandri, gallerie e arrampicate porta verso l’uscita. Capisco che sono stanco quando per fare arrampicate facili mi trovo a dovermi concentrare per non rischiare di scivolare. Fisicamente mi sento bene ma la testa comincia a pesare. Del resto Fabri mi ha sempre detto che “andar in grota xe prima de tuto una question detesta”. Lo capisco appieno adesso, vicino all’uscita, quando sarebbe più fastidioso scivolare e farsi male, ma anche più probabile. E infatti… no, non una scivolata, e non io. Ma Fabrizio ha avuto un brutto incontro con un masso che nel basso cunicolo finale ha pensato bene di staccarsi dalla volta proprio quando passava lui. Per fortuna ha preso il sacco e con l’aiuto di Linus che era dietro è riuscito a liberarsi ed uscire. Fortuna nella sfortuna, meglio così. Ed eccoci appunto all’uscita, dove c’è un ultima visione che mi resterà impressa, che è quella del plenilunio sulle creste innevate dell’Appenino, con il Tirreno sullo sfondo. Guardo l’orologio: le 2 passate, 14 ore di progressione in grotta. Non è finita del tutto, a dire il vero. Manca ancora un’ora di passeggiata nella neve e poi dritti in letto, nella pensione della signora Piera, che il giorno dopo ha preparato un pranzo che è stato memorabile quanto questa traversata.