DSCN6650 Ore 11:00

Ohm: “Vuole lasciare una dichiarazione prima di entrare in grotta?”;
Davide: “Semo cagai”;
Ale (intento a mangiare cioccolato): “La barretta è buona”;
Kraft: “Speremo che no piovi”;
Ohm: “Speremo de no incugnarse”.

Queste le dichiarazioni mentre finiamo di vestirci, perfette per provare il registratore: fidato compagno per scrivere quanto accadrà in una visita di quasi dodici ore. Carichi di energie e pronti più che mai: inizia l’ardua ricerca dell’ingresso che purtroppo, anche questa volta, non ha una posizione precisa nel catasto sloveno.

Dopo già un paio di metri trovo difficoltoso passare per una semplice, col senno di poi, strettoia orizzontale. Dopo qualche suggerimento esperto, mi rendo conto di quanto sia diversificato il passaggio (quindi poco intuibile) e quanto sia scomoda la lampada a carburo. Passato questo primo intoppo segue, subito dopo, una seconda strettoia. Come dire: sembra una grotta inadatta a me. Per descrivere dettagliatamente questo passaggio, prendo ad esempio il balconcino dal quale Giulietta chiamava il suo Romeo. La manovra è semplice: scendere con i piedi fino a posizionarsi con il torso dinanzi al balconcino e da lì canzonare il Romeo di turno. A quel punto: infilare la testa oltre il parapetto e strisciare verso il basso, a testa in giù, lungo il piano inclinato fino al fondo della sala. Da lì aspettare la prossima Giulietta. La manovra, semplice nella sua realizzazione, ha trovato tuttavia un intoppo. Davanti a me Davide, attirato da un bagliore anomalo, nota una biforcazione della fiamma: del tutto normale… per una lampada a carburo dividersi in due corna dall’ugello. Ma lo sguardo di Davide si fa serio e mi ordina di serrare la valvola: la fiamma ha fuso il terminale del tubo di alimentazione e parte del gas esce da esso. Una fiammata in faccia non piace a nessuno, come nemmeno una colata di gomma fusa. Da dietro, Leo, esclama: “ecco spiegato perché mi stavo intossicando lì sopra!”. Poco male: il pegno con la malasorte sembra ormai pagato; si taglia il tubo e si riattacca. Da lì arrivo ad una discesa liscia e ripida, penso che sia un ottimo punto per una foto: prendo la fotocamera dalla tasca ventrale, ma questa -malauguratamente- si trascina dietro la lampada di Kraft e parte un tonante: “MERDA!” seguito da alcuni non simpatici suoni di rotolamento. Fortunatamente, la lampada non termina la sua caduta in nessun punto inaccessibile e tantomeno si rompe. Anzi: sembra funzionare alla perfezione, a parte una vistosa crepa al plexiglass di protezione. Kraft è molto avanti a noi, quindi la ramanzina è al momento rimandata. Per non farsi mancare niente: il tubo della lampada a carburo cede un’altra volta; inizia a bruciare e sono costretto ad abbandonarla sulla strada… la recupererò al ritorno. Proseguo con quella a LED tenuta di riserva e quindi pronta per ogni evenienza. Davide aggiunge: “meno male che le grotte non si lamentano”.

Ora 13.30

Raggiungo finalmente il primo pozzo e, mentre aspetto il “libera” da Leo, mi giro verso Davide.

Ohm: “Tu che hai la lampada più potente della mia: fai un po’ di luce che guardo quanto è profondo”, Davide illumina il pozzo, dove compare Leo che è quasi arrivato sul fondo. Davide, secco, mi risponde: “Un poco”. Ohm: “No dai, non tanto”. Davide: “QB, quel che basta per farti male”. Ohm: “Assolutamente sì, almeno c’è un po’ d’acqua sul fondo… Dai, fra un po’ è Pasqua, hai già preso la cioccolata per gli amici?”. Davide: “Amici? Io non ho amici, io ho solo compagni di disavventure!”. Leo: “LIBERA!” e mi preparo alla discesa. Ohm, guardando il discensore: “Ho come l’impressione di star sbagliando qualcosa”.

Davide: “Infatti…”. Ohm: “Ah, ecco, l’ho messo al contrario!” e lo risistemo.

caduta.borsa

[Piccola, ma necessaria, parentesi tecnica:

come molti sanno, in un discensore di vecchio stampo, nel quale la corda esegue un “otto” attraverso due pulegge fisse e poi passa nel moschettone di rinvio, questa scivola nella mano destra diminuendo la velocità di discesa all’aumento dell’angolo sul rinvio, fino a fermarsi completamente. Per bloccare il tutto, ulteriormente: è sufficiente un semplice nodo intorno al tutto per avere le mani completamente libere. Tutt’altra storia, invece, in un discensore autobloccante: al posto della puleggia inferiore c’è una semi-puleggia mobile con grana mordente comandata da una leva. Lasciando il tutto, la semi-puleggia morde la corda, bloccandola. Stringendo la leva, invece, la semi-puleggia allenta la presa consentendo alla corda di scivolare. Non serve quindi alcun moschettone di rinvio e si ha la mano destra completamente libera. Comodo, utile, sicuro… o almeno così mi fu detto in fase di acquisto!

Un primo difetto, non proprio trascurabile, si nasconde dietro la scelta della corda. Se invece della 8mm si decide di usare quella da 10mm, essa passa con maggior attrito tra le pulegge. Ne consegue una regolazione di velocità per nulla semplice: un grado d’inclinazione di troppo della leva e si scende troppo velocemente, un grado di meno e ti inchiodi a mezz’aria con conseguenti dolori inguinali dovuti all’imbrago.]

Ritornando ora alla fase discensiva, penso sia innocente inesperienza l’usare il discensore autobloccante che mi porta ad alternanti fermate e ripartenze. Peccato che a forza di brusche accelerate, dolenti frenate, stanchezza e comprensibile ansia dovuto al tutto: è inevitabile premere troppo e troppo a lungo la leva. Ne consegue una rapida discesa, troppo duratura e troppo repentina che, comprensibilmente, attiva quel riflesso istintivo di quando si cade: aggrapparsi a tutto quello che è a portata di mano. Purtroppo l’istinto, per definizione, non riflette: a due mani e con tutta la forza di esse mi aggrappo al discensore. La leva si stringe completamente, la semi-puleggia libera la corda ed io mi ritrovo in caduta libera…

Nella sala echeggia un urlo disperato, attutito da un profondo tonfo; Davide si sporge da sopra, Leo si volta, mentre Kraft, in pochi secondi, risale dal ramo successivo e tutti e tre, all’unisono, mi esortano a rispondere! Grido a gran voce: “Sto bene! Sto bene!” pur di assicurarli di essere ancora vivo. L’adrenalina cala rapidamente e inizio a razionalizzare: mio unico metodo per gestire le emergenze. Il tallone destro mi fa male, sono bloccato nel fango a metà polpacci e immerso in acqua fin’oltre la vita. Guardo in alto ed inizio a pensare come mai sia ancora vivo. Nelle ore successive continuerò a rimuginare arrivando alla seguente conclusione: ho avuto quattro fortune…

1. l’altezza dalla quale sono caduto era di poco maggiore ai due metri: sufficienti ad avere un tempo di caduta minimo per concludere il riflesso incondizionato di queste situazioni (allargare le gambe e fletterle, pronte ad attutire il colpo) ma non sufficienti ad accumulare troppa energia potenziale;

2. mezzo metro d’acqua: troppo poco per fare da muro entrando di piedi ma sufficiente a dissipare buona parte dell’energia;

3. almeno mezzo metro di fango: sufficientemente morbido e avvolgente da attutire, attraverso piedi e gambe, un’altra buona parte dell’energia;

4. la mia corporatura robusta: gambe muscolose ed elastiche a sufficienza per accompagnare la discesa del busto, dopo essermi bloccato sul fondo; unito ad un deretano già ingrassato che ha attutito il colpo contro l’acqua (purtroppo, ho lasciato da quasi due anni il canottaggio agonistico).

Scoprirò il giorno dopo, scrivendo questo articolo, di ad un tedesco, una settimana prima, si era trovato nella mia medesima situazione. Purtroppo, lui non ebbe le mie stesse “fortune”: dieci metri di caduta e fondo secco. I suoi riflessi, invece, furono più razionali dei miei e, mentre una mano serrava la leva, (se ho capito bene) l’altra ha afferrato la corda sottostante il discensore, cercando di usarla come freno tra i due. Si fece fuori una mano ma poté raccontarlo.

Chiaramente l’incidente ci ha preoccupati se continuare la visita. Tant’è vero che, dopo aver faticato a recuperare gli stivali dal fango, i “compagni di disavventure” mi chiedono se intendo desistere. “Neanche per sogno! Sto bene, abbiamo appena iniziato ed ho volontà di arrivare fin dove il tempo ce lo concede!”. Tuttavia, date l troppe disavventure, ho una curiosità e chiedo al gruppo: “Chi ha scelto la “fortunata” grotta?”. Mi sale un brivido lungo la schiena nello scoprire che è merito della sottiletta umana. Per lui tutte le grotte, come tutte le strettoie, sembrano semplici e tranquille gite di campagna. Che la provvidenza aiuti questo povero “gamél” (chi, come me, è ancora novizio alla speleologia). Vedete: mentre il buon Kraft pesa appena 57kg con uno spessore che lo rende idoneo alla professione di “strettoista”; io con ben 105kg ed una larghezza non trascurabile: sono idoneo a quella di “tappo delle caverne” avendo difficolta (anche tecniche dovute all’inesperienza) a passare tra le vie più strette.

Detto questo, decido di affiancarmi a lui per ricevere “le sue esperte” indicazioni, dato che conosce la grotta molto bene. Arriviamo ad un laminatoio, lungo forse un paio di metri ma leggermente inclinato lateralmente. Osservandolo attentamente mi sembra opportuno togliermi l’attrezzatura per guadagnare qualche centimetro e me la porto appresso. A fatica e con le ottime “dritte” degli altri, riesco a passarla con non poco sforzo e mi rivesto di tutto punto per il prossimo passaggio: la prima, di due, “tirolesi”.

Ripeto: sono un “gamél”; quindi le misure delle corde della mia attrezzatura non sono le più adatte alle mie dimensioni, del resto ci devo ancora prendere la mano. Libero la “longe lunga” e l’attacco alla “tirolese”, inizio a scivolare sulla corda sopra questo laghetto ma noto che la legge di Newton si impone eccessivamente su di me. Lentamente ma, inesorabilmente, finisco bloccato a metà “tirolese” con mezzo busto sono ancora una volta in acqua e gambe all’aria. Pare che la “longe lunga” sia –troppo- lunga e, chiaramente, i “bastardi” se ne erano già accorti, chiudendosi muti in un complice silenzio. Eccoli lì: a farmi una foto nel mio bel bidét prima di darmi una mano a tirarmi via da quello stallo funicolare.

Finalmente, più avanti, la grotta si allarga e diventa più comodo l’avanzamento. Ogni tanto bisogna guadare laghetti poco profondi, tranne Leo l’”idrofobo”. Lui decide di scalare i bordi della grotta come un ragnetto pur di non bagnarsi gli stivali: “Ooh, quanto spero cada in acqua con un bel tonfo!”. Del resto, sono tutti pieni di energia a parte il sottoscritto: a forza di aspettarmi ad ogni passaggio non tecnico, sono più stufi che stanchi!.

Ore 16.30

Arrivati a -200m di quota relativa, ci rendiamo conto che sono passate già diverse ore da quando siamo entrati e ci troviamo appena al primo terzo del ramo attivo del fiume: sì, sono parecchio lento ancora. Mi dispiace molto per i ragazzi che, con pazienza, mi stanno accompagnando; purtroppo è ora di riprendere la via del ritorno e risalire. A conti fatti, probabilmente usciremo dopo mezzanotte e cerco, per quanto possibile, di allungare il passo e “pompare” forte sui pozzi.

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Al ritorno, poco dopo, trovo i primi problemi con l’altra tirolese; diversa da quella del bidét, ma con un frazionamento su di una colonna centrale. Ricordandomi che avrei avuto problemi, avendola già saggiata all’andata, dapprima provo a guadare il fiume: ma sono costretto a desistere perché bloccato da un muro di due metri (terzo bagno per nulla). Alla fine, dopo diversi tentativi e grattacapi in solitaria (ero troppo distante dagli altri perché vedessero cosa suggerirmi), finalmente passo il frazionamento. Per un momento, bloccato lì, ho creduto di star per prendere fuoco notando lo sguardo d’odio del buon Leo.

Passate le “tirolesi” Davide, più avanti a noi, preso dalla fame ha preparato la merenda per tutti: bombardino e panna per sentirsi a casa, tè caldo per rinvigorirsi e merendine varie per l’energia. Io cerco di finire in fretta per anticiparli e risparmiare tempo prezioso. Risalita dopo risalita, pozzo dopo pozzo, finalmente arriviamo alle ultime due strettoie prima dell’uscita, ritrovandomi nella posizione di Romeo a guardare Kraft che, con tranquillità, risale la strettoia. Ci tengo a precisare: lui con la pancia sul “parapetto” e la testa in alto. Entra nella finestra, si gira senza problemi e prosegue tranquillo verso l’alto. Con decisione vado, imitandolo: risalgo il fianco del parapetto e mi infilo nella finestra. Peccato che la mia flessibilità e la mole non mi permetta tale flessione. Allora mi rivolto, schiena al parapetto ma, arrivato alla finestra: non trovo appigli ai quali aggrapparmi. Devo riflettere e, per guadagnare tempo: chiamo Kraft per passargli i sacchi delle corde. Su consiglio di Leo e Davide mi spoglio dell’attrezzatura per avere maggiore libertà di movimento, forse anche il casco per poter osservare meglio i dintorni; ritento come Kraft, pancia sul parapetto.

Forse a causa della stanchezza psicofisica, forse per la fretta che ormai ci assillava, sicuramente per la mia inesperienza e massa; ma probabilmente il tutto insieme. Sento un “Dai che ci passi, insisti!” e mi spingo troppo oltre… Sono incastrato: la roccia preme contro la carne e non mi permette di scendere; ho spazio per la pancia dietro alla schiena e spazio per il sedere davanti al cavallo. Gli appigli per aggrapparmi e spingere sono tutti dietro, inoltre non ho modo di aggrapparmi neanche ai lati… I pensieri galoppano: “Sei enorme, come speravi di passare?! Come sei sceso così dovresti risalire! Non mi riesco a girare, non trovo appigli! Stai calmo che se ti agiti diventi il doppio… Ma se mi blocco, Leo e Davide non escono più! Appunto: respira e tranquillizzati!”. Momenti di puro panico soffocati dal raziocinio. Non mi posso permettere di svenire: sarebbe ben peggio.

Forse perché vedendomi a penzoloni, forse perché i miei pensieri erano a voce alta senza che me ne accorgessi: sento delle spalle posizionarsi sotto i piedi, da sopra Kraft mi tende il braccio e, da non so dove, sbuca Leo che, potendo vedere chiaramente la mia posizione, mi consiglia come muovere il corpo. Una mezz’ora estenuante, mentalmente lunga il doppio, interrotta da diversi attacchi di panico attenuati da pause in cui mi concentro sul respiro. Una sensazione terribile ed estenuante accompagnata da minimi avanzamenti, sudore e fatica. Finalmente mi libero, con ancora il panico che mi accelera il battito cardiaco. Avviso Kraft e rapido filo fuori attraverso l’ultima strettoia. A pochi metri dall’uscita scorgo il bagliore della Luna e capisco perché porti quel nome: Ponor Polne Lune, Inghiottitoio della Luna piena. Il vederla così tonda e luminosa mi colma di tranquillità e la fredda aria del Carso sloveno mi rinfresca i polmoni ancora carichi di panico ansimante.

Ore 22:50

 

Ohm